Home » Articoli » Upanishad Turya e Gayatri

Upanishad Turya e Gayatri

Upanishad Turya e Gayatri - Lo Spirito

Introduzione alla lettura delle Upanishad (A. D'Alonzo)                                                                   

Sempre più frequentemente l’attuale e totalizzante tendenza alla desertificazione spirituale dell’epoca, costringe l’uomo occidentale all’affannosa ricerca di suggestioni compensatorie bilancianti l’incipiente consapevolezza della perdita di spessore di senso dell’esperienza quotidiana. L’apparato tecnico, come teorizzato da Galimberti, trasformando il “regno dei fini” in un “universo dei mezzi”, ha abolito la storia come éschaton ed esercita un restringimento sull’apertura di senso, che si riflette in un appiattimento delle istanze soggettive connaturato al primato della pseudo-oggettività della “cose”.
La tecnica appiattisce le identità individuali alla sua funzionalità, laddove anche il magico castello dell’interiorità si dissolve in un bombardamento mediatico che impedisce, di fatto, la solitudine e il raccoglimento. Accerchiata dai media la soggettività si autoimprigiona in una chiusura narcisistica all’esterno, dove si rifiutano le possibilità e i rischi connessi all’azione non massificata- in quanto se ne accerta l’evanescenza e l’inconsistenza- o si riduce ad una passiva accettazione dell’imprescindibilità dell’istanza del ruolo che l’apparato le assegna. Il soggetto diventa un impersonale funzionario dell’apparato che incarna un ruolo, quanto più anonimo, tanto più intercambiabile e rimpiazzabile.
Non stupisce quindi che molti occidentali, preso atto della fine della filosofia fondazionistica occidentale, volgano lo sguardo ad Oriente, terra ricca di ricchezze non tanto materiali, quanto piuttosto spirituali. D’altronde, oggi è sempre più accettata la tesi di un’influenza sugli albori del pensiero greco da parte di civiltà più remote, quali quella egizia, e soprattutto indù. È soprattutto nell’ottocento che le grandi opere indù incominciano a circolare negli ambienti accademici tedeschi e si formano insigni orientalisti o semplici appassionati e curiosi lettori di questi testi millenari. Celeberrima rimane, a questo riguardo, la dichiarazione di Schopenhauer che attribuisce alla lettura delle Upanishad, l’unico motivo consolatorio della sua vita. La capacità di ri-velare il dolore esistenziale sotteso al fondo metafisico è, in effetti, peculiare alla letteratura brāhmanica, che schematicamente possiamo far risalire ai Veda, per proseguire con le Upanishad, il Vedānta, la Bhagavad Gītā.
In sanscrito la radice vid, vuol dire “conoscere”, e il termine Veda (conoscenza o anche conoscenza intuitiva, sapienza primordiale) designa i testi che stanno alla radice della religione indiana e si suddividono in quattro grandi raccolte, il Rig-veda o veda degli inni, Inni dedicati alle divinità politeistiche, il Sama-veda o veda dei canti, lo Yajur-veda o veda delle formule sacrificali, lo Atharva-veda o veda delle formule magiche, o anche veda dei sacerdoti àthavan del fuoco e del Soma, che è una bevanda sacra inebriante degli antichi Arii indo-iranici, assimilabile all’idromele dei culti nordici.
I Veda sono redatti in un sanscrito arcaico e contengono le lodi rituali e una narrazione poetica sui miti degli dei Arii, etnia di pelle bianca e di lingua indoeuropea, discesa nella valle dell’Indo all’incirca nel II millennio a. C. Gli Arii si suddivisero secondo tre caste, i Brāhmani, sacerdoti detentori del potere spirituale, gli Ksatriya, guerrieri e nobili detentori dell’ordine temporale, i Vaiśya, allevatori ed agricoltori. A questi si aggiunsero i Śūdra, i serivitori non Arii.
Alla casta dei Brāhmani corrisponde nell’ordine divino la coppia Mitra-Varuna, il primo divinità solare ed il secondo signore dell’oceano. Agli Ksatriya è corrispondente il dio Indra, il Signore degli dei vedici, dio della tempesta e della folgore. Ai Vaiśya è correlativo Parjanya, dio della pioggia, ma anche altre divinità connesse alla fecondità della terra. Possiamo quindi vedere una perfetta corrispondenza fra ordine umano e divino, Microcosmo e Macrocosmo. La predestinazione della nascita riflette perfettamente, secondo gli indù, il Dharma, ovvero la legge che regola l’universo e il Samsāra, la concatenazione delle morti e delle rinascite, cui si pone fine con la Mokśa o Mukti, la Liberazione. E ancora: il Brāhmano si può considerare la bocca di Purusha, lo Ksatriya le braccia, il Vaiśya le anche, lo Śūdra, viceversa è nato dai piedi stessi di Purusha. Le Upanishad vengono di solito considerate parte integrante dei Veda e ne costituiscono la parte conclusiva; possono essere ritenute, a buon diritto, come un insegnamento esoterico di esegesi vedica..

 Etimologicamente «Upanishad» significa “sedersi ai piedi del maestro” , ovvero dottrina segreta tramessa dal guru al discepolo. Le Upanishad si dividono in antiche, medie, e recenti, e schematicamente contengono insegnamenti esoterici volti all’interiorizzazione del rito mediante la pratica meditativa e yogica. Le Upanishad contenute in appendice ai Veda fanno parte della tradizione udita ( śruti) , conoscenza ritenuta superiore alla tradizione “semplicemente” rammentata ( Smrti) : Le Upanishad che provengono dalla śruti si propongono di dimostrare la perfetta identità ed equivalenza teorica e pratica tra Brahman ed Ătman. Con il termine «Brahman», gli indù intendono lo Spirito Universale, considerato secondo una prospettiva oggettiva. L’«Ătman» è il suo correlativo soggettivo, il, la monade universale. Tra Brahman e Ătman vi è una perfetta identità: scopo delle Upanishad è liberare e riaffermare questa identità. È importante sottolineare che l’Ătman- il Sé- è tutt’altra cosa dall’Io della coscienza riflessa (ahankāra), essendo quest’ultimo solo l’organo dell’atto conoscitivo che perpetuando la falsa dualità soggetto-oggetto, conoscente e conosciuto, rimane irretito da Maya, l’illusione magica, che rende molteplice ciò che appare, mentre in realtà la pluralità è un errore: giacché il Tutto fa parte dell’Uno e l’Uno emana nel Tutto. La realizzazione dell’identità Ătman-Brahman, Sé e Spirito Universale, permette al rsi ( saggio ispirato) o allo yogi, di dissolvere la propria coscienza nell’Uno-Tutto, affermando la perfetta unità tra microcosmo e macrocosmo, e dilatando il Sé       ( Ătman) nel suo correlativo oggettivo, nel Brahman. Lo rsi giunto a questo stadio di realizzazione, annulla l’egotismo nello Spirito Universale (Brahman) e realizza così la moksha o mukti (Liberazione), essendosi sottratto - proprio perché pervenuto all’illuminazione - al samsāra, al ciclo delle nascite-morti-rinascite.
Le questioni essenziali indagate dalle Upanishad sono sostanzialmente tre:

1)    la definizione del karma;

2)     l’indagine sull’essenza del soggetto agente;

3)     la questione della relazione fra lo Spirito Assoluto e il mondo oggettivo.


Nei Veda il karman è il sacrificio che unisce l’uomo a Prajāpati ( prajā = Creature; pati = Signore), archetipo del potere germinale del reale, creatore degli uomini, degli dei, degli animali, delle piante, delle cose. Prajāpati è creato a sua volta da Brahmā, personificazione di Brahman, lo Spirito Universale. Nelle Upanishad il karma non è più soltanto l’atto sacrificale, ma è l’invisibile tramite che vincola alle conseguenze dell’azione, e chiama l’uomo ad essere responsabile del proprio fato, in quanto quest’ultimo è la risultante degli atti stessi dell’uomo che pensa, agisce, desidera.
L’essenza del soggetto agente è il riconoscimento dell’identità perfetta tra il polo oggettivo assoluto e quello - altrettanto assoluto - soggettivo: una volta dissolta l’illusione di Maya che rende le cose molteplici, quindi apparenti, si riafferma l’equazione pura Brahman - Ătman. È errato pensare che Brahman e Ătman siano due elementi che dialetticamente si ricongiungono nell’Assoluto, secondo il noto schema triadico hegeliano. Siamo in presenza, piuttosto, di una sorta di tautologia mistica, dove Brahman è Ătman ed è anche contemporaneamente l’Assoluto, così come Ătman è Brahman e L’Assoluto ( quindi non un dialettico 1+2=3; ma 1=2).

Come dice Massimo : “L’Uno è duplice anzi molteplice


La terza questione è cruciale per approfondire la comprensione delle differenze tra la concezione della Creazione, così come ci viene tramandata dalla narrazione antico-testamentaria e la concezione indù della Manifestazione. A differenza del Giudaismo e del Cristianesimo che affermano la presenza di un Dio che crea il mondo, nei libri indù non si parla di Creazione - perché questo vorrebbe dire riconoscere la trascendenza di un Creatore - ma di manifestazione, perché l’Uno non può essere superiore alle sue parti, né le parti possono essere separate dall’Uno, così vuole il monismo indiano, per il quale la realtà è essenzialmente psichica.
Tutto deriva da Brahman-Ătman, manifestandosi in una serie graduale di ipostasi, attraverso le quali lo Spirito Assoluto si estranea da sé, producendo, in conseguenza di questo processo, la molteplicità delle apparenze, ovvero l’illusione di Maya. Ma se l’Uno è il Tutto e le parti del Tutto- in quanto falsa molteplicità- non sono altro che illusione (Maya), allora anche l’uomo che di questo Tutto fa parte è l’Uno. Ma come può egli liberarsi dalla rete di Maya e raggiungere la consapevolezza, illuminazione preliminare alla Liberazione (moksha)?
L’uomo può riuscirci esclusivamente in conseguenza del suo rifuggire le false apparenze del mondo, mediante la meditazione e la concentrazione (dhyāna) , al di là del terzo stato molteplice dell’essere, quando prenderà coscienza che il Sé (Ătman) - che ripetiamo è tutt’altra cosa dall’Io solipsistico che conoscendo si distingue dal suo oggetto- è identico allo Spirito Universale (Brahman).

I quattro “Stati

Quattro sono i molteplici stati dell’essere, che lo yogi può conoscere attraverso un’azione di progressiva introspezione, con cui ripercorre - inversamente - il processo di estraneamento dello Spirito da sé stesso. Brahman per effetto di Maya si estrinseca come macrocosmo, dapprima nell’Essere identico a sé stesso, poi nel Verbo che è causa del possibile, quindi nelle forme eteree ed infine nel mondo materiale, massimo allontanamento dello Spirito dalla propria essenza. Abbiamo quindi un processo - che hegelianamente si potrebbe dire - di alienazione dello Spirito da sé stesso, se non che alla fine del percorso non si trova l’autoconsapevolezza che l’Assoluto ha di sé come Spirito, bensì- e qui dobbiamo rifarci ad Heidegger- l’oblio della disvelatezza dell’Essere. In questo punto risiede la peculiarità della sapienza indiana rispetto al pensiero filosofico occidentale: ogni teoria astratta, cioè non sperimentale, deve poter essere introiettata in una prassi intimista dal soggetto conoscente. L’uomo in quanto microcosmo, contiene in sé rovesciato, l’intero processo di formazione del macrocosmo: per cui come Brahman si estrinseca nel processo di discesa e negazione, così lo yogi si accentra e si introietta nella conoscenza di Sé (Ătman); conoscenza - che non dimentichiamolo - coincide con quella stessa di Brahman.
È essenziale sapere che il primo stadio dell’essere, lo stato di veglia (vaiśvānara) , è quello in cui lo Spirito è paradossalmente più incosciente, mentre nei successivi stadi di sonno con sogni (taijasa), sonno profondo (sushupta) , lo Spirito progressivamente diviene sempre più cosciente di sé, fino al culmine dello stato supremo di trance (turīya, il «Quarto»), dove si realizza la perfetta reintegrazione con Brahman.
L’intero processo è esotericamente racchiuso nel monosillabo sacro OM, sintesi della conoscenza, dove le tre sillabe A, U, M, ( la cui contrazione fonetica è OM) simboleggiano rispettivamente la conoscenza sensibile (A), l’elevazione in seguito all’abbandono del corpo (U), la penetrazione nella conoscenza intuitiva (M).
Questo è in estrema sintesi l’insegnamento esoterico racchiuso nelle Upanishad. Tralasceremo ora, per ovvi problemi di spazio, di introdurre la trattazione del Vedānta («fine dei Veda», esplicitazioni metafisiche delle questioni sottese nelle Upanishad), o della Bhagavad Gītā (commentario e sottocommentario di tutte le discipline fondamentali indiane). Ritorneremo ora al punto di vista che ci è proprio in quanto occidentali, ovvero alla prospettiva del pensiero critico.
Se consideriamo la filosofia come un’arte di produrre concetti, di sostenere ipotesi avvallate da argomentazioni, confutazioni, criteri di dimostrabilità, prove e sillogismi, ecc., non possiamo non ammettere che le dottrine orientali non sono propriamente delle filosofie- alla maniera in cui questo disciplina è intesa in Occidente- ma nemmeno possono essere riconducibili, in nuce, a qualche forma di irrazionalismo agnostico. Al contrario, il pensiero indiano è equiparabile, tout court, alla filosofia premoderna e precartesiana, alla mistica renano-fiamminga, alle correnti dell’esoterismo occidentale, ecc. In altre parole, il pensiero indiano è filosofico nella misura in cui fa proprie la speculazione e l’ortoprassi delle scuole presocratiche e neoplatoniche, in cui condivide e perfeziona gli abissi vertiginosi della mistica eckhartiana, in cui si cura di elaborare tecniche per risvegliare nel piano sottile le energie nascoste della monade individuale. In questo senso, il pensiero indiano è filosofia. Non lo è più, certamente, se con quest’ultima designiamo un’arte di produrre concetti. Infine, sorge spontanea la questione se il termine “filosofia” strictu sensu- in quanto “amore della sapienza”- non possa essere riservato proprio alla speculazione indiana e, conseguentemente, il pensiero occidentale moderno non risulti piuttosto una decadente alterazione dello spirito umano, da sempre teso, alla reintegrazione originaria con l’Universo. Forse- lanciando una sottile provocazione- sarebbe il caso di distinguere una volta per tutte il pensiero critico dall’”amore per la sapienza”, riservando quest’ultima a quelle correnti speculative che non scindono teoria e praxis, spirito e vita. Forse, la vera philos-sophia non ha niente a che spartire con le scuole contemporanee occidentali e deve essere ricercata nel pensiero precartesiano e nella speculazione indiana.
Un’ultima considerazione. Specialmente nei Veda si perpetua un realismo ingenuo, si attribuisce realtà effettiva agli enti e ai concetti inerenti come essenze necessarie. Si chiama qualcosa con un nome e, nominandola, si pensa che esista realmente. Manca, insomma, qualsiasi riflessione critica o indagine epistemologica. Ma anche quest’assenza è più peculiare al pensiero metafisico che a quello filosofico, sempre teso a superare l’immediatezza della facile identificazione tra sfera concettuale e mondo sensibile. Per Heidegger la metafisica è la contrapposizione di un soggetto conoscente ad un oggetto da conoscere: tuttavia nella conoscenza esoterica il soggetto finisce ineluttabilmente per identificarsi e con-fondersi con l’ente conosciuto.
Concluse queste brevi osservazioni teoretiche, è necessario dare alle dottrine indù quanto è dovuto, sottolineando la profonda bellezza, anche lirica, di questi insegnamenti, in grado di offrire un compendio di antica saggezza interiore al neofita e di riproporre quella domanda fondamentale sui valori essenziali dell’era tecnocentrica, sempre più frequentemente pullulante di ciarlatani travestiti da maestri spirituali.

seguenti brani tratti dalle diverse Upanishad mirano a mettere in evidenza il carattere originale di una ricerca della conoscenza e dell’autocoscienza che va ben oltre l’uso degli strumenti razionali dell’uomo e include anche momenti rituali. La sapienza indiana non è quindi filosofia secondo la definizione di Hegel, ma non è nemmeno religione secondo la concezione occidentale affermatasi soprattutto grazie alle grandi religioni monoteistiche e rivelate. 

 

a) Il Bráhman è ineffabile, è tutto e il contrario di tutto

 

Il Bráhman costituisce una unità fra essere e divenire assolutamente sconosciuta al pensiero occidentale: non c’è separazione fra ciò che muove e ciò che è mosso, tra il principio ordinatore e le cose ordinate. 

Isa Upanishad 

 

4. Immobile, unico, più rapido del pensiero, Costui [lo Spirito, il Bráhman] gli stessi Dèi non possono raggiungere nel suo procedere. Costui, stando , supera gli altri che corrono. In Costui Matarisvan stabilí le Acque.

5. Costui si muove, Costui non si muove; Costui è lontano, Costui è vicino; Costui è all’interno di questo Tutto, Costui è anche all’esterno di questo Tutto.

6. Colui il quale, però, riconosce tutte le forme del divenire entro l’Atman e l’Atman in tutte le forme del divenire, da Costui piú non si cela.

7. Colui nel quale tutte le forme del divenire sono diventate il proprio Sé, Colui il quale ciò conosce, quale turbamento vi può essere, quale dolore, per Colui il quale scorge l’unità?

8. Egli si è diffuso, luminoso, incorporeo, senza difetti, senza organi, puro, invulnerabile al male. Il vate [kavi], il pensatore [manisin], colui che tutto diviene [paribhu], l’autogeno [svayambhu] ha ordinato le cose secondo la loro essenzialità da evi infiniti.

 

b) Il Bráhman è il principio di tutte le cose

 

Il Bráhman, al di là dei nostri sensi e della nostra mente, è il principio di tutte le cose, è ciò che fa sì che i nostri sensi sentano e che la nostra mente pensi. Om (o Pranava) è la sillaba creatrice nella quale è racchiuso il senso dell’universo; è usata come invocazione liturgica o formula di concentrazione per la meditazione. 

  

Kena Upanishad 

  

Om!

1. Da chi [kena] desiderato impulso vola il pensiero? Da chi soggiogato muove il respiro per primo? Da chi voluta viene detta questa parola? Quale dio aggioga la vista e l’udito?

2. Allorché i Saggi si sono liberati dall’udito dell’udito, dalla mente della mente, dalla parola della parola, dal respiro del respiro, dalla vista della vista, dipartendosi da questo mondo, diventano immortali.

3. Ivi non giunge la vista, né la parola, e neppure la mente. Non sappiamo né conosciamo in quale modo Lo si possa insegnare; Egli è altri che il noto e l’ignoto. Cosí l’abbiamo udito dagli antichi rishi, che ce l’hanno spiegato.

4. Ciò che non è articolato dalla parola, ma mediante il quale la parola è articolata, questo è il Bráhman. Sappilo. Non è certamente ciò che in questo mondo si venera come tale.

5. Ciò che con la mente non si può pensare ma, come dicono, mediante il quale la mente viene pensata, questo è il Bráhman. Sappilo. Non è certamente ciò che in questo mondo venerano come tale.

6. Ciò che con l’occhio non si vede, ma mediante il quale gli occhi vedono, questo è il Bráhman. Sappilo. Non è certamente ciò che in questo mondo venerano come tale.

7. Ciò che con l’udito non si ode, ma mediante il quale l’udito ode, questi è il Bráhman. Sappilo. Non è certamente ciò che nel mondo si venera come tale.

8. Ciò che nel respiro non respira, ma dal quale il respiro è guidato , questi è il Bráhman. Sappilo. Non è certamente ciò che nel mondo si venera come tale.

 

c) Il Bráhman è un “bersaglio” ( questo è un linquaggio IMPROPRIO, non rende il senso )

 

Il Bráhman è come un bersaglio da raggiungere. Ciascuno ha in sé la freccia per raggiungere quel bersaglio: la meditazione. 

Mundaka Upanishad, II, 3

 

1. La Grande Sede [mahat padam] è manifesta, pur movendo celata nel cuore , e in lei è stabilito tutto ciò che esiste, movente, respirante, balenante. Sappiate che Essa è piú desiderabile che il Reale e l’Irreale [sadasad, “essere non essere”], piú alta della conoscenza [vijnana, “cognizione distintiva”]. Essa è l’Ottimo per tutte le creature.

2. Ciò che è splendente ed è più sottile che il sottile, ciò su cui sono fondati i mondi e gli abitanti dei mondi, è questo il Bráhman indefettibile: esso è l’energia vitale [prana], il Verbo, l’Intelligenza [manas]; esso è il Vero, l’Immortale. Riconoscilo [...] come da trafiggere.

3. Avendo afferrato come un arco quella grande arma che è l’arcano insegnamento [Upanishad], incocca in esso la freccia acuita dalla meditazione: avendolo tratto mediante lo spirito concentrato nella meditazione dell’Essere, riconosci questo indefettibile come il bersaglio , o mio caro.

4. Il Pranava [la sillaba Om] è denominato arco, lo Atman freccia, il Bráhman bersaglio. Senza farsi distrarre [a-pramattena] questo bisogna colpire, essendosi reso simile a un dardo.

5. Ciò in cui sono tessuti il cielo, la terra e lo spazio intermedio, la mente [manas] assieme a tutti i sensi, questo è l’Atman unico e quello che si deve conoscere, lasciate tutti gli altri discorsi! Questo è il ponte [setu] verso l’immortalità.

 

d) La ricerca del Sé supremo

 

Nel brano sono messe in evidenza le tappe della ricerca del Sé supremo, di ciò che rende possibile l’esperienza fisica e sensibile (degli oggetti esteriori), l’esperienza del sogno, il sonno profondo – in cui la coscienza è strumento di conoscenza –, e infine la totale illuminazione e autocoscienza, la “pienezza di pace e di beatitudine”. 

  

Mandukya Upanishad, I-II

 

I

1. Om è questo indefettibile <Bráhman>; Om è tutto ciò che è; questa <Upanishad> ne è la spiegazione; ciò che è esistito, ciò che esiste e ciò che esisterà, tutto <ciò> è Om. Quell’Altro, trascendente la tritemporalità, è pur esso designato da Om.

2. Tutto questo è, invero, il Bráhman; questo Atman è il Bráhman; questo Atman ha quattro Stati [catuspat, “quattro piedi”].

3. La prima condizione è Vaisvanara, la quale ha come sede lo stato di veglia [jagarita-sthana]; essa ha conoscenza degli oggetti esteriori, ha sette membra, diciannove volti e fruisce del mondo materiale.

4. La seconda condizione è Taijasa, la cui sede è lo stato di sogno [svapna]: essa ha conoscenza degli oggetti interni; ha sette membra e diciannove bocche ed ha come dominio il mondo della manifestazione sottile.

5. Allorché l’essere dormiente non prova più desideri, non è piú soggetto a sogni, allora si ha la condizione di sonno profondo [susupta]. Colui che è in questo stato è divenuto uno [eki bhuta], è divenuto sintesi di conoscenza [prajnana-ghana], si è fatto beatitudine [ananda-maya] ed ha la beatitudine come campo di esperienza; la coscienza è il suo strumento di conoscenza. Costui è chiamato Prajna [conoscitore assoluto]. la terza condizione.

6. Egli è il Signore di tutto; Egli è l’onnisciente; Egli è l’ordinatore interno; matrice di tutto, Egli è l’origine e la fine di gli esistenti.

 

II

7. I saggi pensano che il Quarto, che non ha conoscenza né degli oggetti interni né di quelli esterni, né, contemporaneamente, di questi e di quelli, che non è sintesi di conoscenza, <poiché> non è né conoscente né non conoscente, che è invisibile, non agente, incomprensibile, indefinibile, impensabile, indescrivibile, è la sicura essenza fondamentale dell’Atman, nella quale è totalmente cessata ogni traccia di manifestazione, ed è pienezza di pace e di beatitudine, senza dualità: questo è l’Atman [cosí deve venir conosciuto].

 

e) Prajapati, le forze creative dell’universo

 

            Nelle Upanishad ritorna costantemente il tema dell’unità di tutto il creato e del Creatore con le creature. Qui si sottolinea che anche le parole della preghiera e il suono della meditazione (Om) nascono dalla stessa forza creatrice e sono tutt’uno con l’universo. 

  

Chandogya Upanishad 

 

2. XXIII

3. Prajapati covò i mondi. Dai mondi covati nacque il triplice Veda. Egli li covò.  Ne uscirono le sillabe bhuh, bhuvah, svah [terra, aria, cielo].

Gayatri: Oṃ bhūr bhuvaḥ svaḥ

tát savitúr váreṇ(i)yaṃ

bhárgo devásya dhīmahi

dhíyo yó naḥ pracodáyāt

TRADUZIONE LETTERALE

OM: IL SUPREMO
BUH: LA TERRA
BHUVAH: L'ATMOSFERA
SVAH: IL CIELO
TAT: COLUI
OM : IL SUPREMO
SAVITUR: IL SOLE(LA DIVINITA' CHE GENERA E ILLUMINA LA VITA)
VARENYAM: L'ASSOLUTO, IL MIGLIORE TRA I TANTI
BHARGO : QUELLA LUCE SUPREMA CHE DIMORA NEL SOLE E DISTRUGGE I SEMI DEL KARMA
DEVASYA: DELLA DIVINITA' CHE CAUSA LO SPLENDORE DELL'UNIVERSO
DHI MAHI: MEDITIAMO
DHIYO YO NAH: CHE IL NOSTRO INTELLETTO
PRACHO DAYAT: POSSA INCITARE 

 

La Gayatri é un invito rivolto all' Intelligenza Universale.  Il suo scopo é quello di accendere la capacità del discernimento ( intelletto ) per permettere all'uomo di analizzarsi e di rendersi conto della sua natura divina.

 

4. Egli li covò: ne uscì il suono Om. Come tante foglie l’una sull’altra, attraversate da una asticciola, così tutte le parole sono fondate sul suono Om. Il suono Om è tutto questo universo – è davvero tutto questo universo.

 

3. XII

5. Questa gayatri [la più importante preghiera rituale indù], con i suoi sei aspetti [gli esseri, la parola, la terra, il corpo, il cuore, il prana (l’energia vitale)], comprende quattro pada [quattro quarti]. Ecco ciò che dice un saggio a tale proposito:

6. Tale è la sua grandezza; più grande è il Purusha [l’Essere universale, primigenio]; un suo quarto comprende tutti gli esseri; dei suoi altri tre quarti è fatta nel cielo l’immortalità.

 

3. XIII

7. Ed ora, quel lume celeste che splende al di sopra di noi, che brilla di là da tutte le cose, di là dall’universo, nei mondi superiori oltre ai quali non vi è piú nulla, questa luce è, senza dubbio, quella stessa luce che irraggia dentro l’uomo.

 

f) Nel cuore dell’uomo c’è tutto l’universo

 

            Secondo la teoria della reincarnazione l’uomo determina il proprio destino nelle vite successive. Ma ciascun uomo ha dentro di sé, nel cuore, il Bráhman, tutto l’universo: cioè la possibilità di unirsi – una volta lasciato questo mondo – al Tutto. 

  

Chandogya Upanishad 

  

3. XIV

1. Tutto quanto esiste è Bráhman. Nel riconoscere l’inizio, la fine ed il presente di ogni cosa occorre essere nella pace. L’uomo è materiato di volontà [kratu-maya]; allorché l’uomo abbandona la vita diviene ciò che in fatto di volontà ha concepito in questo mondo. Bisogna pertanto che eserciti la sua volontà.

2. Spirito puro il cui corpo è soffio di vita, la cui forma è luce, il cui concetto è verità, la cui essenza è spazio, sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di ogni percezione di odore e di gusto, abbracciante quanto vi è, muto, indifferente.

3. È questo Sé [Atman] dentro il mio cuore, che è piú piccolo di un grano di riso, di un grano di orzo, di un grano di senape, di un grano di miglio, di un nocciolo di un grano di miglio: questo stesso Sé che è dentro il mio cuore è piú grande della terra, piú grande dello spazio, più grande del cielo, più grande di tutti i mondi.

4. Sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di tutte le percezioni di odore e di gusto, abbracciante tutto ciò che è, muto, indifferente, è questo Sé, che è dentro il mio cuore. Questo è lo stesso Bráhman. Colui il quale dice a se stesso: “Uscendo da questo mondo in lui trapasserò”, in verità non vi è per lui alcun dubbio di essere nel giusto. Cosí dice Sandilya.

 

g) Il Bráhman è pensiero e spazio

 

Il punto di vista soggettivo e quello oggettivo. 

  

Chandogya Upanishad 

  

3. XVIII

1. Occorre riconoscere che il Bráhman è pensiero [manas]: ciò dal punto di vista individuale [adhyatmam]. Per quanto si riferisce, invece, al punto di vista cosmico [adhidevatam], bisogna riconoscere che il Bráhman è spazio [akasa]. Questi sono i due punti di vista, il soggettivo [individuale] e l’oggettivo [cosmico].

 

h) Nel cuore dell’uomo è la “città del Bráhman

  

Il Bráhman occupa in ciascuno di noi uno spazio piccolo, dove però è contenuto tutto l’universo: questo è il Sé (Atman). Il Sé è immortale, non invecchia, e, dopo la morte del corpo – se è stato conosciuto e riconosciuto –, ci consente di essere felici in tutti i mondi delle nostre vite future. 

  

Chandogya Upanishad 

  

8. I

1. In questa città del Bráhman un sottile loto forma una dimora, dentro la quale vi è un piccolo spazio. Bisogna ricercare ciò che vi è dentro questo spazio, bisogna desiderare di conoscerlo.

2. E se qualcuno domanda: “In questa città del Bráhman un piccolo loto forma una dimora nella quale vi è un piccolo spazio; che cosa essa racchiude che sia necessario ricercare, che occorra desiderare di conoscere?”.

3. Bisogna rispondere: “Questo spazio che si trova all’interno del cuore è altrettanto vasto quanto lo spazio che abbraccia il nostro sguardo. L’uno e l’altro, il cielo e la terra, vi sono riuniti; il fuoco e l’aria, il Sole e la Luna, la folgore e le costellazioni, e tutto ciò che appartiene a ciascuno di loro in questo mondo e ciò che loro non appartiene, tutto ciò vi è riunito”.

4. E se qualcuno dice: “Se tutto ciò che esiste è riunito in questa città del Bráhman, tutti gli esseri reali e tutti i desideri, che cosa di loro rimane, allorché la vecchiaia la raggiunge o allorché essa viene distrutta?”.

5. Bisogna rispondere: “<Il Bráhman> non è raggiunto da vecchiaia, non è colpito dal colpo che lo distrugge. Essa è la vera città del Bráhman: tutti i desideri [kamah, “esseri in potenza”] in lei sono riuniti. Questo è l’Atman puro di qualunque peccato, libero da vecchiaia, da morte, da dolore, da sofferenza, da fame, da sete, i cui desideri sono tutti realtà . Allo stesso modo che le creature in questo mondo si comportano seguendo una autorità, e tendono verso un particolare oggetto desiderato, scegliendosi un paese o una regione, in cui vivono.

6. E come in questo mondo si consuma ciò che si è acquisito mediante le azioni [i riti sacrificali], egualmente nell’altro mondo si consuma ciò che si è acquisito mediante le buone opere. Perciò coloro i quali passano per questo mondo senza riconoscere l’Atman e, per mezzo suo, i desideri che sono realtà inverata, costoro vivono in tutti i mondi senza potere ciò che vogliono. Ma coloro i quali, vivendo in questo mondo, riconoscono l’Atman e, per mezzo suo, la effettuazione dei desideri, costoro in tutti i mondi possono ciò che vogliono.

 

i) Il Sé supremo (Atman)

 

La felicità eterna è garantita dalla conoscenza del Sé (Atman). 

  

Chandogya Upanishad 

  

8. IV

1. Questo Atman è una diga [setu], una barriera che separa i mondi. Né le notti né i giorni possono passare di là da questa diga, né la vecchiaia, né la morte, né il dolore, né la sofferenza, né le buone né le cattive azioni.

2. Tutti i peccati recedono da essa; perché il mondo del Bráhman è senza peccato. Questa è la ragione per la quale, invero, la notte, per chi traversa la diga, si tramuta in giorno. Perché il mondo del Bráhman è, una volta per tutte, mondo di luce.

 

8. VII

1. “L’Atman liberato da ogni peccato, che non è sottoposto a vecchiaia, a morte, a sofferenza, a fame, a sete, i cui desideri ed i cui pensieri sono realtà, questo è ciò che bisogna cercare, è questo che bisogna desiderare di conoscere. Acquista tutti i mondi, realizza tutti i desideri, colui il quale raggiunge questo Atman e lo conosce”. Cosí parlò Prajapati.

 

(Upanishad antiche e medie, Boringhieri, Torino, 19682)

 

 

 

 

 

Lo Spirito

Al Vostro servizio

Lo Spirito

Centro

Lo Spirito

Campo

Campo - Lo Spirito